21 Novembre 2024

MESSINA – La Rete Epatologica Siciliana nella lotta all’epatite C

La Rete Epatologica Siciliana è considerata unanimemente il miglior modello nazionale per la lotta al virus dell’epatite C: è uno dei dati più significativi tra quelli emersi in occasione di “Across The UNIverse – Biotech Camp”, iniziativa promossa nell’ambito della IV edizione dell’European Biotech Week con l’obiettivo di analizzare i rapporti virtuosi tra ricerca clinica – universitaria e mondo dell’industria. “La Sicilia è un esempio per tutta Italia – ha sottolineato Giovanni Raimondo, direttore UOC Epatologia clinica e biomolecolare del Policlinico G. Martino – l’idea è già quella di estendere questa rete eccellente ad altre patologie di interesse epatologico come epatite B (che non ha ancora una cura ma si può tenere a bada il virus), steatoepatite e a quelle autoimmunitarie del fegato, in particolare epatite autoimmune e colangite biliare primitiva”. Quest’ultima, denonimata CBP, è considerata cronica e rara; una volta era chiamata “cirrosi”, ma molti anni fa gli epatologi hanno modificato il termine perché, grazie alla diagnosi precoce, non si arriva più a quello stadio, oltre a superare lo stigma dell’alcol, non legato alla colangite. In Italia sono affette 13mila persone con un’incidenza di 5,3 casi su 100mila persone ogni anno, perlopiù donne (90%); è ancora poco conosciuta e nel 30/40% dei casi può portare al trapianto di fegato. La sintomatologia è poco specifica, quindi oltre il 40% attende almeno un anno prima di rivolgersi al medico e tra la prima visita e la diagnosi trascorrono altri due anni. “Abbiamo prodotto negli anni numerosi lavori di ricerca traslazionale i cui risultati sono stati pubblicati sulle più importanti riviste di medicina – ha proseguito Raimondo – grazie al sostegno di fondi pubblici e aziende private per la validazione di nuovi farmaci”. Partner dell’evento all’UniMe Intercept rappresentato dall’A.D. Barbara Marini che ha ricordato le difficoltà nell’accesso alla cure e le differenze tra Regioni: “Abbiamo lavorato per anni in un contesto di farmaci cosiddetti orfani – perché non esistevano terapie approvate per questo genere di malattie – negli ultimi decenni c’è stata una vera esplosione nella ricerca di soluzioni per combattere le patologie rare. Esiste però un problema di ricezione delle cure, che ancora oggi non è uguale in tutto il Paese: le Regioni adottano procedure differenti e ciò crea un gap che può raggiungere anche uno o due anni di ritardo, rispetto per esempio alla Lombardia”. Da qui l’importanza di ampliare la RETE nata per l’epatite C a queste altri mali. “Dobbiamo operare in un contesto di opening innovation, – ha concluso la Marini – per trasformare il sapere scientifico che nasce dentro le università in una proposta di valore e quindi di soluzioni terapeutiche sempre migliori per chi è affetto da colangite biliare primitiva o altre malattie fortemente debilitanti, se non trattate nei tempi giusti”.