Castiglione e Novara di Sicilia, i briganti di Mazzaruto. La grotta dei misteri
Tra le tante leggende dei secoli passati che raccontano di tesori (truvature) e di personaggi inverosimili ambientate nelle grotte dell’Etna, una ripercorre le vicenda della bella figlia di un barone di Novara, rapita da alcuni briganti che avevano il loro covo in territorio di Castiglione di Sicilia, in una grotta lavica al confine tra il territorio di Randazzo e Mojo Alcantara. La leggenda è riportata da diversi libri e da vari autori. Ecco in sintesi cosa si racconta :
“Le sciare di Mazzaruto nel territorio di Castiglione, nel luogo che è detto precisamente il piano, presentano una serie di pietroni più o meno grossi, con un incavo nella parte superiore, che le fa somigliare a grandi trugoli, e che il popolo ritiene servissero di abbeveratoio ai cavalli di un certo numero di briganti, che qualche secolo addietro abitavano in una grotta, che non si è più potuta scoprire, ma che certamente deve aprirsi in quel piano. Audaci e feroci, questi briganti non cessavano di devastare i paesi vicini, ed una volta, anzi, giunti sino a Novara, rubarono l’unica figlia del Barone e portatala nella loro grotta ve la chiusero legata ad un anello infisso nella parete, di fronte ad un giovane muratore, che tenevano là dentro per le possibili riparazioni che la grotta richiedeva. Inutili furono le pratiche del povero padre per aver la figliola; tutte le offerte quei briganti rifiutarono, ed anzi, quasi ad aggiungere scherno all’offesa e per dimostrare che non temevano di alcuno, un giorno gli si presentarono vestiti da mietitori e gli si offersero per i lavori della stagione. Furono però conosciuti e senza che essi ne sapessero nulla, il barone seppe che i pretesi mietitori erano i ladri della sua figliola, sicché poté dare certe disposizioni. Fingendo di ascoltare e di accogliere le loro proposte, egli li inviò uno ad uno, per un piccolo corridoio, nella stanza dell’amministratore, che doveva prender nota dei loro nomi, e dare un acconto. Ma nessuno pervenne in quella stanza: un trabocchetto che si apriva nel corridoio li ingoiò dal primo all’ultimo e tolse al mondo tanti scellerati. Si cercò allora di rinvenire la loro grotta per riavere la baronessa, ma non vi riuscì e gli anni passarono e quella povera fanciulla col suo compagno vi morirono certamente d’inedia, perché non se ne ebbe più notizia, ed il barone dové chiamarsi pago di aver vendicato la figliola che non aveva potuto ricuperare. Parecchi anni addietro, un pastore castiglionese che aveva il suo gregge nel piano di Mazzaruto, vide tra l’erba una pietra con un anello di ferro, ed alzatala trovò l’ingresso di un sotterraneo. Fattosi coraggio, scese la scala e fu ben presto nella grotta, in una prima stanza della quale erano dei commestibili invecchiati e guasti e nell’altra tre grandi mucchi di monete, uno d’oro, il secondo di argento e il terzo di rame. Alle due pareti laterali, legate agli anelli, due catene tenevano ancora avvinti due scheletri. Il pastore, senza badare ad altro, pensò a prendersi un sacco di monete d’oro e si avviò per uscire; se non che, quando era sull’ultimo scalino, una voce dall’interno lo trattenne: – A te il denaro, e a me che resta? diceva questa voce. Spaventato, buttò allora il sacco e corse verso il paese, dove giunto dovette mettersi a letto per una febbre violenta che lo assalì. Pochi giorni dopo era morto, e da allora nessuno ha più potuto rivedere la grotta di Mazzaruto.